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Reato di “Stalking” per il marito troppo invadente che entra in mail privata e profilo Facebook dell’ex.

27 Maggio 2017 da dagata

Reato di “Stalking” per il marito troppo invadente che entra in mail privata e profilo Facebook dell’ex. Pesa il disturbo post-traumatico da stress diagnosticato dallo psicologo. Le intrusioni nella vita privata per controllare cosa fa dell’ex generano nella vittima uno stato di perdurante ansia tale da indurla a cambiare casa e utenze

Scatta il reato di stalking nei confronti della moglie, per l’ex marito separato che incombe con troppa insistenza sulla donna con continue intrusioni nell’account di posta elettronica e nel profilo Facebook per controllare cosa fa. Questo comportamento assillante dell’ex può costare caro. Risponde, infatti, di atti persecutori chi ossessiona il vecchio partner con ripetute minacce, ingiurie e abusivi accessi sulla casella personale di posta elettronica e sugli account social media, provocando un perenne stato di ansia tanto da spingere la vittima a cambiare casa, utenze domestiche e, più in generale, le abitudini di vita. Così ha deciso la Cassazione, con la sentenza 25940/17, pubblicata oggi dalla quinta sezione penale. Gli ermellini hanno dichiarato inammissibile il ricorso di un uomo, condannato per stalking dalla Corte di appello che riformava la sentenza di assoluzione di primo grado. All’imputato, evidenzia Giovanni D’Agata presidente dello “Sportello dei Diritti”, era contestato di aver reso impossibile la vita dell’ex convivente con ripetute minacce, messaggi, ingiurie all’indirizzo tanto da cagionarle uno stato di ansia perenne che l’avrebbe spinta a cambiare abitudini di vita e utenze telefoniche. La Cassazione non fa sconti e conferma la pronuncia di seconda istanza. Nel ricorso proposto, l’uomo separato lamenta, per bocca dei suoi avvocati,vizio motivazionale. Secondo il tribunale che assolveva l’uomo, non era stato dimostrato il nesso causale tra le condotte persecutorie e il grave stato di ansia e paura generato nella donna; di diverso avviso è il giudice di appello che ha evidenziato le lacune della prima decisione. Il tribunale, pur avendo accertato che le intrusioni nella vita privata della donna avevano contribuito a modificare le proprie abitudini, al punto di essere costretta a cambiare casa, trascura tali importanti elementi e lo fa anche in relazione allo stato di ansia, «integrato dal grave disturbo post-traumatico da stress diagnosticato dalla psicoterapeuta della vittima». Sulla prova del nesso causale, poi, per quanto il primo giudice si attenga ai costanti principi della Cassazione in materia, il richiamo si rivela «avulso dagli elementi probatori, che, viceversa, fondavano sia una valutazione di astratta idoneità ad ingenerare paura (per le minacce profferite, e per i controlli a distanza operati anche mediante abusivi accessi informatici) sia una valutazione di concreta incidenza sul mutamento delle abitudini di vita, essendo stato accertato che la vittima, proprio in conseguenza degli accessi abusivi, era stata costretta a cambiare utenze telefoniche, indirizzi mail, e profilo Facebook, oltre all’abitazione». La Corte di secondo grado, invece, non ha trascurato tali aspetti, arrivando alla conclusione che lo stato di «perdurante ansia e paura e l’alterazione delle abitudini di vita invece sono stati determinati proprio dalle condotte persecutorie dell’imputato, consistite in minacce, molestie continue e ossessive, intrusioni nell’account di posta elettronica e nel profilo Facebook».

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