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Le commozioni cerebrali sono un problema sommerso nello sport.

7 Febbraio 2019 da dagata

Le commozioni cerebrali sono un problema sommerso nello sport.

Il terribile scontro aereo per il centrocampista del Lecce Manuel Scavone ha riaperto il dibattito sugli scontri fisici negli sport e le conseguenze, in particolare nel calcio. Non è un record da sbandierare: secondo un recente studio canadese, i giocatori per esempio di hockey a cui è toccata l’esperienza di una commozione cerebrale, tendono a ottenere ingaggi meno ricchi rispetto ai colleghi, e a lasciare prima il ghiaccio. I casi più gravi sfociano in una sindrome cronica (Cte), finita sotto i riflettori negli Stati Uniti dopo i suicidi di diversi giocatori di football. Casi in aumento e in Italia? Il problema è noto in ambito hockeystico, anche se i giocatori spesso tendono a sminuire i sintomi per non danneggiare la carriera. Secondo gli esperti di medicina dello sport negli ultimi tre anni i casi sono aumentati da sei a otto, a dodici nella stagione 2017-18. In Italia gli episodi variano tra 7 e 10 all’anno. L’incidenza è in linea con la media. Le assenze dai campi di gioco variano in base alla gravità da un minimo di cinque giorni a diversi mesi e non mancano gli addii definitivi. Meglio rischiare? Il guaio è che la diagnosi non è semplice, concordano gli esperti. È dimostrato che con l’accumularsi degli infortuni aumenta il rischio per l’atleta. Dopo il terzo episodio grave, bisognerebbe smettere secondo i neurologi. Ma la decisione finale spetta al giocatore. E la prospettiva di ritrovarsi senza lavoro scoraggia molti. Per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” serve più sensibilizzazione. Per questo occorre una maggiore sensibilizzazione alle squadre, agli arbitri e ai medici e la sfida non riguarda solo il calcio dove si sono già fatti passi avanti, ma anche tutti gli sport a rischio. In prima linea nella partita ci sono gli atleti: continuando a giocare sanno di correre un rischio, e non si pensa a dare l’esempio.

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