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Mobbing, il Ministero degli Esteri e capo condannati a pagare il danno da bossing al doppio delle tabelle.

25 Novembre 2021 da dagata

Mobbing, il Ministero degli Esteri e capo condannati a pagare il danno da bossing al doppio delle tabelle. Duplicato l’importo del pregiudizio biologico: pesa la sofferenza per la lesione morale alla dignità del lavoratore. Il responsabile risponde per l’intero nel concorso fra causalità umana e concausa naturale

La Cassazione: “Calpestata la dignità, totale disinteresse per le ricadute sulla dipendente”. Il Ministero Affari Esteri e capufficio pagano il danno da mobbing al dipendente. E ciò perché si tratta di bossing: a perseguitare il lavoratore è soltanto il superiore gerarchico, ma a rispondere è anche il datore in quanto colpevolmente inerte. Applicate le tabelle del tribunale di Roma: l’importo del danno biologico è raddoppiato per risarcire la sofferenza morale che deriva dalla lesione della dignità del prestatore sul luogo di lavoro. Né conta che la vittima della condotta vessatoria sia una persona già fragile: in caso di concorso fra causalità umana e concausa naturale il responsabile dell’illecito risponde per l’intero. È quanto emerge dalla sentenza 35061/21, pubblicata il 17 novembre dalla sezione lavoro della Cassazione, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, che per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, associazione da anni impegnata nella tutela delle vittime del mobbing, assume una rilevanza proprio in tale ambito e costituisce un ulteriore significativo precedente in materia. Niente da fare per la dirigente e per l’amministrazione pubblica: diventa definitiva la condanna al risarcimento loro inflitta dalla Corte d’appello in riforma della pronuncia del Tribunale. Decisive le testimonianze dei colleghi in una storia di bossing tutto al femminile: la “capa” sminuisce in modo sistematico il lavoro della sottoposta («fa schifo»). Le corregge di continuo gli elaborati, costringendola a ore di anticamera e a turni di straordinario, salvo poi chiamarla «disgraziata» e «idiota» di fronte ai colleghi, negandole i congedi maturati. Di più: le assegna compiti dequalificanti, attribuendo invece mansioni che le spetterebbero a semplici stagisti. Insomma: la condotta della dirigente è frutto di un disegno per declassare la personalità della lavoratrice e costringerla ad andar via, come poi è successo. Risultato: la vittima riporta un disturbo dell’adattamento quantificato in un’invalidità permanente al 4 per cento. La lesione accertata, dunque, investe non soltanto obblighi contrattuali ma anche prerogative personali di rango costituzionale: il diritto alla salute e alla dignità sul luogo di lavoro. Non conta che la persecuzione colpisca una persona già affetta da un disturbo di base «dipendente» con tratti «evitanti»: il rapporto eziologico fra la condotta di mobbing e la lesione del diritto alla salute sussiste anche quando la prima costituisce soltanto una concausa e opera su di un substrato psicologico preesistente. Il danno morale per le mortificazioni patite sul luogo di lavoro è provato per presunzioni per la modalità della condotta e il carattere prolungato.

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